VITE PRECARIE – venditori di tempo –
Articolo di Carla Maria Ruffini*
La precarietà lavorativa ed esistenziale e la femminilizzazione del lavoro sono diventate pressoché sinonimi, quasi sovrapponendo le crude realtà della marginalizzazione economica e professionale e dell’umiliazione delle soggettività collettive e individuali. Il modello di lavoro fagocitante imposto alle donne durante secoli di sperimentazioni patriarcali si è esteso alla quasi totalità delle creatrici e dei creatori di ricchezza, nella dimensione produttiva e in quella riproduttiva; ricchezza ingente destinata in gran parte a ingrossare le tasche di pochissimi soggetti privati (lobbies produttive ma soprattutto finanziarie, multinazionali e multiutility, gruppi di speculatori e plutocrati parassiti), che si appropriano con ingordigia della ricchezza sociale e dei beni comuni, determinando le scelte politiche del pianeta e delle popolazioni che lo abitano. La condizione di assuefazione e rassegnazione di fronte ai soprusi e alle violenze, manifeste e implicite, che oggi appare così ampia e avvilente, ha molto a che fare con la storia dell’infausto binomio ‘capitalismo patriarcato’ e con il tentativo di entrambi, nella loro odierna veste di finanzcapitalismo, economia bellica ed estrattiva, sistema di potere oppressivo fondato sulla violenza maschile – di proporsi come condizione ineluttabile, anziché originata da cause individuabili e resistibili.
La precarietà che ha invaso ormai le nostre vite – nella forma conclamata del lavoro intermittente e ‘spezzato’ o sotto le mentite spoglie del lavoro a tempo indeterminato finché-non-termina -, e lo sfruttamento intensivo e pervasivo che ne deriva, possono essere considerati atroci corollari della flessibilità neoliberale, il volto odierno dello sfruttamento patriarcale e capitalistico, sostenuto e giustificato teoricamente dalle retoriche della inevitabilità, da una parte, e della libertà e autodeterminazione, dall’altra. Come conseguenza (scientemente perseguita) della flessibilità neoliberale, la precarietà si mostra del tutto funzionale alle logiche del mercato onnivoro e globalizzato, impedendo la soggettivazione degli individui e, soprattutto, delle comunità.
Il tempo dell’orologio
La forbice della cosiddetta postmodernità si allarga: gli algoritmi che governano le scelte economiche (e ci governano) e le condizioni delle vite vissute, le sofferenze individuali e sociali, inflitte come una condanna alla caienna, prendono strade divergenti, che si incrociano solo per determinare quando e come la morsa dello sfruttamento debba stringersi. La dinamica autonoma dell’economico al servizio del capitalismo, in particolare del capitalismo finanziario, origina quella precarietà diffusa, pervasiva, inarrestabile, in balia della quale si dibattono troppi destini umani che, nella solitudine a cui la loro condizione lavorativa ed esistenziale li condanna, sono deprivati della possibilità di trovare soluzioni collettive a problematiche sociali. Nel lontano 1994 Karl Polanyi già preconizzava con grande lucidità le drammatiche conseguenze dell’affermarsi del principio di autonomia dell’economico: non più un’economia inglobata (embedded) nel sistema delle relazioni sociali, ma i rapporti sociali inglobati nell’economia.
In questa forbice disumana, come le donne ben sanno, il tempo diventa elemento centrale dell’ingranaggio che regge le sorti del sistema ‘lavoro vita’ nella società del capitale e del patriarca-padrone. Ed è stata soprattutto la riflessione delle donne a far emergere il ruolo assunto dalla dimensione ‘tempo’ nella fase della rivoluzione industriale e del modo di produzione taylorista-fordista , denunciando con forza la disgiunzione del tempo industriale dai ritmi e dalle funzioni ‘vitali’ delle persone – in primis le donne, appunto – e il disconoscimento violento dell’attività riproduttiva, considerata come insieme di funzioni ‘naturali’ e non come attività di produzione di valore sociale a tutti gli effetti (le organizzazioni sindacali hanno contribuito a consolidare questa ‘naturalità’ dei tempi e ritmi di lavoro attraverso la monetizzazione del lavoro notturno). È il tempo dell’orologio, indispensabile per coordinare nel tempo e nello spazio le attività interne dell’impresa e le relazioni con l’esterno, a predefinire rigidamente e sincronizzare i tempi, e sono le richieste del processo di produzione a determinare i margini di disponibilità del tempo libero, del tempo ‘altro’ – gerarchicamente subordinato al tempo di lavoro – e la sua collocazione, sempre meno compatibile con le esigenze della vita. Se la fabbrica è considerata un nuovo genere di prigione, l’orologio, che ben rappresenta il paradigma temporale imposto dalla società industriale – e sul quale si modula la metrica collettiva e individuale dell’esistenza -, viene identificato nella riflessione femminista come un nuovo genere di carceriere, presente e vigile per ‘misurare’ in ogni istante il tempo della doppia presenza delle donne.
Oggi più che mai il vessatorio modello di organizzazione del lavoro che ha imposto l’economia neoliberale non solo concepisce il lavoro per il mercato e il profitto globalizzato come una priorità assoluta, sacrificando senza alcuna remora i diritti di chi lavora o di chi è senza lavoro, ma esige di disporre in modo incondizionato delle loro esistenze – determinando, accorciando, dilatando, frammentando, intensificando l’attività lavorativa secondo una ritmica che fa impallidire il ‘vecchio’ ed esplicito modello tayloristico -, attraverso la gestione autoritaria, assoluta e arbitraria del tempo di lavoro e del tempo di vita delle persone.
Venditori di tempo
Nell’epoca dei contratti atipici, del lavoro a chiamata, dei riders, dei voucher e perfino del lavoro-gratuito-per-fare-curriculum, l’unità fondamentale di produzione è rappresentata – e ciò vale a maggior ragione per l’attività riproduttiva – non tanto dal prodotto ma dalla durata del lavoro: chi lavora vende il suo ‘tempo di lavoro’, piuttosto che il prodotto del suo lavoro, offre l’assenso (obbligato e sotto ricatto) all’utilizzo del tempo per le tiranniche e talora imprevedibili esigenze del mercato del lavoro, piuttosto che la sua capacità lavorativa e potenzialità/progettualità professionale. Il fatto che il tempo sia considerato un valore calcolabile e rendicontabile in termini economici esige la sua disponibilità senza condizioni e vincoli e il suo sfruttamento intensivo per ottenere competitività dei costi e capacità di sviluppo.
Alle lavoratrici e ai lavoratori – o a chi aspira a diventare tale – non si chiede più di specializzarsi in attività e compiti specifici, in base ai quali costruire nel tempo il ‘mestiere’ o la ‘professionalità’: sempre di più, intrappolando il lavoro e la formazione nelle retoriche della flessibilità e del cambiamento a misura di mercato, ‘spacciati’ per risorse e potenzialità di crescita della persona, la permanenza nello stesso posto di lavoro lungo tutto l’arco della vita lavorativa è stigmatizzato come disvalore, mentre la polivalenza e duttilità – che si piega a qualsiasi esigenza produttiva e organizzativa -, la propensione senza riserve e acritica all’apprendimento lifelong, la disponibilità al cambiamento eterodiretto e alla rinuncia alla progettualità personale e sociale diventano valori assoluti, dando luogo a una beffarda ‘premialità’ lavorativa.
Le donne, impegnate sul terreno della doppia presenza e ‘funambole’ del tempo e dello spazio, hanno sperimentato per prime sulla loro pelle e al prezzo di immani sofferenze – e per prime hanno saputo anche tematizzarlo – quella specie di ‘cottimo del tempo’ rappresentato dall’attuale sfruttamento intensivo e totalizzante del tempo di lavoro e di esistenza: il tempo schizofrenico del lavoro produttivo e riproduttivo, lo schiacciante ‘onere’ della quotidianità, le logoranti biografie frammentate e interrotte – costruite attraverso l’acrobatica combinazione di attività retribuite per il mercato, attività di cura e gestione di spazi e relazioni nella complessità della rete familiare e sociale, lavoro incessante di tessitura di un universo simbolico e relazionale messo a disposizione della collettività -, in poche parole ‘il lavoro che si prende la vita’. Ciò vale a maggior ragione nel nostro Paese, dove la doppia presenza delle donne è stata aggravata dal protrarsi della condizione di sfruttamento del lavoro femminile che, come per prima ha messo in luce Laura Balbo (1979), ha rappresentato una risorsa funzionale al nostro carente sistema sociale, privo per molto tempo di un welfare state degno di questo nome e ora di nuovo ‘impegnato’ a smantellare ciò che era stato costruito a prezzo di dure lotte, condotte in primo luogo dalle donne.
La miccia del cambiamento
E proprio le donne, nel cui vissuto, come ben evidenzia Marita Rampazzi (2006), il tempo di lavoro non si è mai sovrapposto in modo totalizzante al tempo dell’esistenza – ciò che invece ha caratterizzato il modello di biografia maschile dominante nella società patriarcale e capitalistica, appiattito (ma in ascesa libera nella scala del comando) sul ruolo primario di “breadwinner” – possono innescare la miccia del cambiamento radicale che va dritto ai nodi del sistema, laddove si origina lo sfruttamento e la violenza. Le cosiddette politiche attive femminili attuate negli scorsi decenni, prime fra tutte le misure finalizzate alla conciliazione dei tempi di lavoro e di vita, si sono rivelate largamente insufficienti per gli scopi di promozione dell’autonomia e autodeterminazione che proclamavano, rivelandosi anzi funzionali al perpetuarsi di condizioni di discriminazione e divisione di ruoli e contribuendo in parte al fenomeno devastante della femminilizzazione del lavoro.
La soggettività femminista – costruita nel ‘tempo lungo’, in qualche fase ‘carsico’, del femminismo e che ora, grazie alla rete di movimento Nonunadimeno, prende nuovo slancio e vitalità, mostrando un profilo di analisi e azione all’altezza del difficile passaggio storico che stiamo vivendo – fornisce chiavi di lettura sostanziali e imprescindibili per comprendere il fenomeno basilare del furto del tempo e della vita, che oggi si sta perpetrando sotto i nostri occhi attoniti nell’organizzazione neo-tayloristica del lavoro, e comincia a evidenziarsi nella sua forma tipica di violenza sistemica e strutturale, come testimonia il lucidissimo e radicale “Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere” elaborato dall’oceanico movimento.
* Docente presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna e formatrice in ambito pubblico, si occupa da anni di diritti sociali e civili e di beni comuni (oggi in particolare con Arsave-Laboratorio per la città che vogliamo, Università Invisibile e Forum dei movimenti per l’acqua). Femminista da sempre, è impegnata nel movimento Non Una Di meno. Ha aderito alla campagna Un mondo nuovo comincia da qui