“Vivere Dio qui e ora”, l’ultimo libro di Wanda Tommasi sulla sapienza mistica di autrici del nostro tempo
Vivere Dio qui e ora. La sapienza mistica di autrici del nostro tempo, ultimo libro di Wanda Tommasi, è un altro saggio della sua scrittura appassionata e penetrante che definirei “un nutrimento dello spirito”, una boccata d’aria buona in un mondo in dissoluzione.
Wanda cerca con questo libro, seguendo una tradizione femminista di analisi già consolidata, di fare della “mistica”, non una sfera trascendente separata dalla vita quotidiana, ma una esperienza fruibile “nel qui e ora”, nel presente di ogni giorno. Lo fa usando interpretazioni di autrici famosissime come Simone Weil ed Etty Hillesum, meno famose come Madeleine Delbrêl e Adrienne von Speyr e, tra le più vicine a noi, come Cristina Campo e Antonella Lumini.
Il libro parte sorprendentemente dalla affermazione nietzschiana “Dio è morto!” con cui si è chiuso il moderno, perché è proprio dalla costatazione di questa morte annunciata che Dio può tornare a rivivere con maggior vigore nell’epoca post-moderna.
Lo sdradicamento del nostro tempo, nato in parte dalla morte di Dio, paradossalmente e in diversi casi diviene il punto di partenza di una fede autentica. L’autrice afferma che senza l’esperienza della schiavitù operaia non ci sarebbe stata la svolta mistica di Weil, senza il catapultamento nell’inferno della Shoah non ci sarebbe stata la scoperta di Dio di Hillesum, senza l’ateismo non sarebbe nata la fede ardente di Madeleine Delbrêl. L’ateismo, come sostiene Weil, realizza nell’anima una sorta di purificazione, fa vuoto della falsa religiosità per lasciare il posto a Dio, senza mediazioni.
Simone dal suo incontro, direi impatto, con la sventura operaia (malheur) che paragona al calvario del Cristo in croce (altro che marxiana alienazione e/o reificazione!), dall’impossibilità di cambiare questa condizione giunge al “niente è impossibile per Dio”. Etty, scaraventata nelle tenebre della Shoah, una sventura senza rimedio, nella pratica della scrittura e della preghiera scopre Dio dentro di sé a tal punto da sentirsi “incinta di Dio”, cosa che le farà senza alcun tentennamento dire che “le situazioni di male sono un bene”. Madaleine, infine, esclama “Dio è morto, viva la morte”.
Ma più che la sventura in sé, per Wanda Tommasi è l’innamoramento, esperienza eminentemente terrena come esperienza di sbilanciamento dell’io nell’altro da sé, che porta queste autrici all’innamoramento di Dio e a ritrovare un posto per Lui nella loro anima, senza la mediazione dei falsi riti e delle forme burocratiche del potere ecclesiastico. Sia Weil che Hillesum rifiutarono i sacramenti impartiti dalla Chiesa, rimasero per così dire sulla soglia e furono chiamate dalla Campo: “Beate senza aureola”.
La Campo, vissuta in un tempo più vicino a noi, di assenza di religiosità, “epoca di povertà e miseria simbolica”, anche lei, proprio partendo da questo vuoto, considera il suo tempo, il tempo in cui viene meno tutto, come il tempo della fiaba, “l’era della bellezza in fuga, della grazia e del mistero sul punto di scomparire, come le apparizioni e i segni arcani della fiaba”(p.34). Il mondo della fiaba come quello della mistica “promette a chi è piccolo, inerme, privo di mezzi, irrimediabilmente carente di non essere sopraffatto da colui che è più forte. La vittoria sulla legge di necessità è custodita dai simboli della fiaba cosi come dalla sapienza mistica” (p.35).
Speranza e affidamento, che ritroviamo sia nella fiaba che nella mistica, sono gli elementi costitutivi della fede che è soprattutto fiducia nell’altro, sia esso un umano o Dio.
Fiducia come abbandono, quell’abbandono che fa esclamare ad una famosa beghina “voi cercate, noi troviamo”, perché proprio là dove si fuoriesce dalla egoità per affidarsi all’altro che si insinua la Grazia. Sotto questo punto di vista l’infanzia è una dimensione privilegiata, perché è il tempo in cui tutto manca al vivente umano che nasce bisognoso – anzi è l’essere più bisognoso del creato – e quindi si predispone a ricevere quel tutto dall’esterno come una grazia, come il dono del latte materno. Ed è ancora una fiaba, quella di Cenerentola, a svelarci che la perdita è fonte di guadagno: Cenerentola perde la scarpetta ma trova l’amore di un bellissimo principe. La fede nasce dall’innamoramento: sia Etty che Madaleine sanno cosa significa perché hanno amato e perso il loro amato, ma invece di crogiolarsi in questa perdita, hanno fatto della loro esperienza di amore, vissuto come sbilanciamento del proprio centro nel centro dell’altro, il luogo per fare il salto nel centro di Dio, passando così direttamente da un innamoramento terreno a quello divino. Questa predisposizione umana ha il corrispettivo nell’Amore come ricerca del consenso da parte di Dio, che come un mendicante “bussa instancabilmente alla porta dell’anima (…) mendica e implora il consenso” (p.51).
Emblematica è la parabola del consenso che ritroviamo nella bella descrizione che Weil ci fa del rapimento di Core da parte del Dio degli Inferi, che la strappa con violenza alla madre. Core, che in un primo momento si lascia rapire inconsapevolmente e che dopo aver mangiato il chicco di melograno (ossia assaporato la gioia divina) si accorge di aver già dato il suo consenso, ritorna a Dio in un modo più consapevole. Il consenso all’amore lo ritroviamo anche nella fiaba di “Belinda e il Mostro”. Il mostro fa assaporare alla bella amata le sue virtù, aldilà della sue orribili sembianze, anzi proprio il sorvolare da parte di lei su queste sembianze terrificanti è la verifica della autenticità della loro relazione amorosa, che va oltre il visibile, accede a quella sfera dell’invisibile e del mistero che le è più propria. Il mistero non è nulla di trascendente, è nella vita di tutti i giorni – bene lo afferma nell’introduzione al libro Antonietta Potente — ed è ben rappresentato dal mito, dalla fiaba, dalla mistica, che ci danno la chiave di accesso e di lettura di un invisibile che non è meno reale della realtà stessa, forse più reale perché va oltre le leggi di necessità ed evidenza, categorie cartesiane in cui è immersa ancora la maggioranza di noi. “Certo con la separazione tra natura e ragione di cartesiana memoria, si è rotta l’unità dello ‘Spirito’ che contiene anima e corpo, spiritualità e natura e noi viviamo il nostro quotidiano secondo le coordinate newtoniane di causa-effetto, per noi è reale solo ciò che esperiamo secondo la scarna legge di causalità. Ma è questa la sola legge che regola la realtà?” (Premessa di G. Borrello in A. De Simone, Un insolito inverno, ed Liguori) .
Più donne che uomini comprendono il mistero, perché queste vivono già l’esperienza del mistero della vita dentro di sé attraverso il concepimento di un’altra vita. Sono più predisposte a penetrare lo stesso mistero della Trinità a partire dalla relazione con la madre: “una relazione in cui il primo altro è un’altra del proprio stesso sesso, una persona distinta da sé, ma simile e non del tutto separata” (pp. 73-74). Nella Trinità, la relazione tra il Dio separato della prima persona, che diventa vicinanza (Dio nel figlio Gesù), seconda persona, aperta agli altri/e, nella terza persona dello Spirito Santo può essere paragonata alla relazione simbolica madre-figlia, relazione privilegiata ma fecondatrice di infinite relazioni. “Il privilegio di nascere dello stesso sesso della madre è anche un bene di natura simbolica, esso rimane a disposizione di tutti coloro, compresi gli uomini, che vogliono approfittarne e che sono disposti a condividerlo” (p. 74). La trinità è l’essere in relazione, ma trinitario è anche l’amore, la preghiera, lo stesso consenso.
Per Weil l’amicizia più dell’amore rappresenta la Trinità, perché l’amore corre sempre il rischio che uno diventi subalterno all’altro. L’amicizia, invece, per essere tale, deve mantenere costante la distinzione tra i due. Essa non si fonda sul principio di eguaglianza aristotelica, ma sulla pitagorica armonia dei contrari, sull’unione di unità e separazione, che segnano lo stesso ritmo della Trinità, modello assoluto di amicizia.
Il testo non poteva non concludersi che con la figura di un Dio-Madre. L’iconografia corrente ci ha sempre rappresentato Dio come padre, frutto della elaborazione di una teologia prevalentemente antropocentrica, convalidata da una delle preghiere più recitate di tutti i tempi che è il Pater- nostro. Ma, già nella tradizione medievale abbiamo avuto forme di rappresentazione di Dio come madre; Wanda Tommasi cita Giuliana di Norwich. Nel medio-evo la differenza sessuale non veniva occultata come è avvenuto nell’epoca moderna e contemporanea. Oggi però, grazie alle teologhe femministe, ma anche alle filosofe (penso alla stessa Luce Irigaray) il volto di Dio assume le sembianze materne, siamo passate dal Dio-padre autoritario della legge (Vecchio Testamento) al Dio misericordioso e quindi materno (Nuovo Testamento). Il volto materno di Dio viene rappresentato a volte dalla seconda persona (Gesù), e a volte dalla terza (lo Spirto Santo) come recentemente da Antonella Lumini. Entrambe le visioni danno luogo ad una Teologia della Madre non ancora del tutto diffusa, ma che costituisce un ulteriore segno indelebile della venuta al mondo della Libertà femminile.
Wanda Tommasi, Vivere Dio qui e ora. La sapienza mistica di autrici del nostro tempo (2023, edizioni Paoline).